Il lento passaggio ad IPv6: cosa succede con il protocollo che avrebbe dovuto salvare Internet dalla fine degli indirizzi IP?

Al momento il protocollo IPv6 è supportato dal 40% di Internet: alcune evoluzioni non così prevedibili hanno reso meno pressante la sua adozione negli anni recenti
di Andrea Bai pubblicata il 26 Ottobre 2024, alle 09:01 nel canale WebGeoff Huston è il Chief Scientist dell'Asia Pacific Network Information Center, l'organizzazione che si occupa della gestione degli indirizzi IPv4 e IPv6 per l'area Asia-Pacifico. Sul blog dell'organizzazione Huston ha pubblicato un'analisi molto approfondita, con alcune interessanti digressioni storiche, che cerca di fare luce su cosa stia accadendo al protocollo di indirizzamento IPv6, la cui diffusione sembra essere ben più lenta dell'atteso e che potrebbe richiedere ancora 20 anni, al ritmo attuale, prima di essere completata.

Ricordiamo che la nascita del protocollo IPv6 è stata motivata da una preoccupazione concreta: l'esaurimento degli indirizzi IPv4 che avrebbe potuto ostacolare la crescita di Internet. Originariamente fu prevista un'adozione naturale del protocollo, che sarebbe stata guidata e trainata dalla crescente domanda di indirizzi IP. La strategia iniziale prevedeva una fase di transizione in cui le reti avrebbero supportato entrambi i protocolli (dual stack) prima di abbandonare gradualmente IPv4.
Tuttavia, l'esplosione dell'uso mobile di Internet ha stravolto
questi piani e, come lo stesso Huston sottolinea, IPv6 si è rivelato più
un'evoluzione che una rivoluzione. "IPv6 non offriva alcuna nuova
funzionalità che non fosse già presente in IPv4. Non introduceva
cambiamenti significativi al funzionamento di IP. Era solo IP, con
indirizzi più grandi", spiega lo scienziato nel suo intervento.
L'avvento degli smartphone ha posto gli operatori di rete di fronte a una scelta cruciale: "Potevamo concentrare le nostre risorse nel soddisfare le incessanti richieste di ridimensionamento oppure potevamo lavorare sulla distribuzione IPv6", osserva Huston. La scelta è ricaduta sulla scalabilità immediata, nell'attesa che IPv6 guadagnasse slancio, portando all'adozione diffusa della tecnica di Network Address Translation (NAT) come soluzione pratica per consentire a più dispositivi di condividere un singolo indirizzo IPv4.
NAT si è rivelato efficace e assieme all'evoluzione di altre tecnologie, come Transport Layer Security nei server Web, ha ridimensionato la necessità e l'urgenza del passaggio ad IPv6. Si è instaurato una sorta di circolo vizioso: la "resistenza" di IPv4 ha messo i provider di contenuti nella condizione di non dare priorità all'adozione di IPv6 e, di consegnuenza, anche gli operatori di rete hanno avvertito minori pressioni per la sua implementazione.
Huston sottolinea come proprio i fornitori di contenuti abbiano contribuito a modificare alcune importanti dinamiche nel funzionamento di Internet, in particolare per via del modo di gestire le reti di distribuzione dei contenuti. Queste ultime si sono via via basate sull'uso dei nomi di dominio, invece che sugli indirizzi IP, con la conseguenza di portare i DNS ad un ruolo di primo piano: "È il DNS che viene sempre più utilizzato per indirizzare gli utenti verso il 'miglior' punto di distribuzione del servizio per contenuti o servizi" evidenzia Huston.

Al momento IPv6 è supportato dal 40% circa di Internet, con Cina e India a fare la parte del leone: in questi Paesi le allocazioni IPv4 sono limitate e l'adozione di IPv6 è stata una scelta obbligata per supportare le vaste popolazioni in cerca di connettività.
Huston riflette sulla natura della rete e sulla definizione tradizionale che viene attribuita ad Internet, e cioè un insieme di reti che usano una struttura di trasmissione condivisa, suggerendo che potrebbe essere più appropriato considerarla una "raccolta eterogenea di servizi che condividono meccanismi referenziali comuni utilizzando uno spazio dei nomi comune."
Inoltre il Chief Scientist dell'APNIC suggerisce di cambiare prospettiva anche su IPv6 e su quando considerarla una "transizione di successo". Secondo Huston invece di pensare ad una transizione completa come "eliminazione totale di IPv4", andrebbe vista più pragmaticamente come il momento in cui IPv4 non sarà più necessario, e cioè quando sarà possibile gestire servizi Internet validi usando solo IPv6 e senza avere alcun meccanismo di accesso IPv4 supportato.
45 Commenti
Gli autori dei commenti, e non la redazione, sono responsabili dei contenuti da loro inseriti - infoAnche Hybrid IPv6 va bene
Anche Hybrid IPv6 va bene
Esatto, ottima proposta
Preferirei avere un indirizzo pubblico IPv6 che stare sotto NAT IPv4.
Preferirei avere un indirizzo pubblico IPv6 che stare sotto NAT IPv4.
Viceversa, per chi non ha bisogno di accesso dall'esterno, l'IPv4 nattato è preferibile, meno tracciabilità e più protezione...
No. Anche PianetaFibra, ad esempio...
Preferirei avere un indirizzo pubblico IPv6 che stare sotto NAT IPv4.
Avevo un operatore nattato fino a qualche mese fa, usando Tailscale potevo accedere dall'esterno ai miei dispositivi. Alla fine l'ho mantenuta.
Dai successivi test ho visto che la maggior parte dei dispositivi mobile (con la configurazione base), non accedeva.
Ho anche configurato IPv6 sul mio smartphone Android, ma dopo qualche ora la configurazione IPv6 e' sparita.
Se IPv6 viene ostacolato, non ci sara' mai il passaggio a IPv6.
Ma lunga vita a ipv6 .. se paga pantalone..
Non ho capito cosa c'entra il TLS.
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