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Old 08-11-2023, 10:34   #1
cronos1990
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Videogioco: Cosa si racconta? [Spunto di riflessione sul media]

Trattasi di un articolo che ho scritto altrove, che riporto paro paro qui. Lo condivido come spunto di riflessione.


Sono quello che a me piace definire videogiocatore “vecchio stampo”. Non per questioni anagrafiche, nonostante qualcuno potrebbe pensarlo: ho iniziato con questa passione quando avevo circa 10 anni (oddio, anche prima considerando le sale giochi di un tempo), quando ricevetti dai miei genitori il mio primo computer, un Commodore 64. Forse l’unica cosa che abbia mai davvero chiesto in vita mia a qualcun altro con una certa insistenza. L’accezione di quel “vecchio” è sul mio personale punto di vista. Su quello che è un videogioco, o più precisamente su cosa “identifica” un videogioco (e per estensione i giochi in generale).

Quale tipo di intrattenimento
Probabilmente qualcuno starà pensando al discorso dell’interattività, in contrasto con altri tipi di media (fra tutti: la televisione) dove si è soggetti passivi di fronte ai contenuti che ci vengono presentati. È palese che se guardo il film Dungeons & Dragons: l’Onore dei ladri, a prescindere dal livello di attenzione che mantengo per la sua durata non faccio altro che guardare e sentire contenuti realizzati e confezionati da altri, non ho alcun controllo diretto su di essi.

Un qualcosa di ben diverso dal mettersi davanti al PC, avviare Baldur’s Gate 3 e portare avanti la campagna di gioco proposta. Pur vincolati all’interno dei limiti della programmazione realizzata dalla software house, siamo noi in prima persona che dobbiamo “far avanzare” la storia, il videogioco non prosegue da solo fintanto che noi non eseguiamo delle azioni al suo interno. Azioni che a seconda del contesto ludico e delle meccaniche potrebbe essere un’operazione specifica (o si fa quella, o non si va avanti) o un ventaglio di possibilità tra cui scegliere.



Ma non è l’interattività che distingue un videogioco da un film o qualunque altro tipo forma espressiva. È evidente che sia un elemento che crea una differenza di fondo, ma mettere su questo piano il confronto rappresenta un doppio errore. Il primo quello di focalizzarsi su un aspetto che non è quello che realmente contraddistingue un media piuttosto che un altro, l’interattività in questo senso è solo il MODO (o uno dei modi) col quale andiamo a fruirne, oltre che una conseguenza naturale.

Il secondo quello di porre sullo stesso piano delle forme d’arte (per me il videogioco è una forma d’arte al pari di tante altre, aperta e chiusa parentesi) che hanno finalità ben diverse. Dire che la differenza tra un film e un videogioco è nell’interattività, per quanto detto sopra implica che in fondo sono due facce della stessa medaglia. E se questo fosse vero, per estensione potremmo anche dire che qualunque gioco, non necessariamente elettronico, rientra in questa concezione. Perché in fondo quando giochiamo a Monopoli tra amici stiamo di fatto “interagendo”, ma non mi risulta che nessuno abbia mai fatto paragoni tra questo gioco da tavolo e una produzione cinematografica. Al massimo fanno un film sul Monopoli.

Questo problema nasce, a mio avviso, dalla continua ricerca di paragoni e punti di contatto con film e serie TV, nel corso dell’evoluzione di questo media. In fondo i videogiochi possono raccontare storie tramite un approccio audiovisivo, presentano personaggi con una loro personalità e una serie di eventi che si sviluppano con l’avanzare della trama. La cosa di per se non è un male, tutto dipende come viene sfrutttata. Purtroppo si è creato un rapporto “forzato”, che in un mercato sempre più ampio e redditizio ha spinto pericolosamente i videogiochi verso direzioni prettamente cinematografiche.

Il confine tra questi due mondi è sempre più labile, nel senso negativo del termine: non si è creata una visione d’insieme generando una nuova forma di intrattenimento, ma più semplicemente una delle due è diventata sempre più simile all’altra. Ciò ha fatto dimenticare che la differenza tra un videogioco e un film non è nell’interattività, ma per lo scopo ultimo: proporre una sfida che ogni giocatore deve superare utilizzando tutta una serie di strumenti che gli vengono forniti, o che in qualche modo deve cercare di procurarsi. Mettere alla prova le proprie capacità e, se necessario, superare i propri limiti.

Navigare fuori rotta
Questo continuo allontanarsi dal focus dei videogiochi non fa altro che far perdere la loro identità. Sempre più spesso le grandi produzioni sono fatte in funzione di fornire un tipo di intrattenimento che si avvicina a quello della visione di un film, alcune opere hanno filmati che durano decine di minuti senza che il giocatore faccia nulla, intervallati da sezioni di gameplay che il più delle volte hanno solo la finalità di portarci al video successivo.

Beninteso: alcune di queste realizzazioni sono di alto livello. Il tanto acclamato The Last of Us, pur non presentando una storia originale se non per alcuni elementi, ha comunque una narrativa ottimamente costruita, personaggi ben caratterizzati e un incedere degli eventi che appassiona il giocatore; in qualche modo sa emozionare facendoci provare empatia per i due protagonisti. E ha il pregio di intervallare con le giuste tempistiche i filmati alle parti giocate, in un sottile equilibrio che non fa annoiare quasi mai. D’altro canto questo gioco è stato sempre pensato per essere prima di tutto una storia da raccontare, e non a caso la serie TV su cui si basa è una delle migliori realizzate in questi ultimi tempi.

Ma questo modo di lavorare, sempre più comune, non fa altro che annacquare il genere, nella volontà di renderlo sempre più un “clone interattivo” di un’opera cinematografica. La sostanza che dovrebbe definirlo (gameplay, meccaniche, level design, ruleset) passa sempre più in secondo piano e viene asservita ad altri elementi. I motivi di tale deriva sono diversi, non ultimo indubbiamente la risposta del pubblico e quindi il guadagno che viene generato da queste produzioni, direttamente e indirettamente. E non di meno alcune di queste, intese come “opere di intrattenimento” e non semplici videogiochi, sono realizzazioni di pregio.

Questo modo di operare comporta poi a cascata tutta una serie di conseguenze che creano ulteriore distanza tra quello che è, e quello che dovrebbe essere. Anche in funzione del pubblico di riferimento che per forza di cose è del tutto diverso, per modo di pensare e di approcciarsi, rispetto al videogiocatore di 25-30 anni fa. Al netto del progresso tecnologico da allora, che ha sicuramente il suo peso.



Si prenda ad esempio il concetto di difficoltà. Pur tenendo conto che è un aspetto molto soggettivo, e che bilanciarlo è sempre complicato, si tende a fare videogiochi sempre più facili ed immediati per evitare qualunque tipo di frustrazione o richiedere un impegno troppo gravoso. Il giocatore non deve sbattersi per superare un ostacolo complesso, deve invece poter andare avanti senza intoppi per giungere alla fine. Questo modo di pensare va a minare proprio il concetto di sfida insito in un qualunque gioco, non vengono più messe alla prova le proprie capacità cercando al contempo di migliorarle di fronte ad un muro apparentemente invalicabile.

Questo, laddove per me non riuscire a completare un gioco perché non abbastanza capaci rientra nella normalità delle cose. Se non riesco a correre i 100 metri in 10 secondi, accorciare la distanza a 50 metri o far andare il cronometro più lento per “riuscire” è solo un inganno per fornire un vacuo appagamento e tanti rimorsi.

EVOLVERE SENZA DISSOLVERSI
Alla luce di questa lunga e, a mio avviso, fondamentale premessa, potrà apparire strano il nocciolo del discorso di questo articolo.

Sebbene “vecchio” come ideologia di fondo, al tempo stesso nel mio piccolo “credo” di aver cercato di mantenere una mentalità aperta alle novità, o per meglio dire non rimanere ancorato ad un (mio) monolitico passato che trova origine nel mondo di 30 anni fa che, per ovvi motivi, non è quello di oggi. Conscio che il mio modo di ragionare e le mie passioni hanno una radice nel modo in cui sono cresciuto da piccolo (oltre che per via della genetica), al tempo stesso cerco di non rimanere bloccato dalle mie certezze storiche, provando per quanto possibile ad essere aperto al mondo che evolve attorno a me.

Ciò vuol dire che se da un lato ritengo fondamentale preservare l’identità dei videogiochi, dall’altro non vuol dire che non possa evolversi in qualche modo, anzi è naturale e per certi versi necessario. Tenere a mente il passato per ricordare ciò che siamo è importante, ma al tempo stesso è letate non avere la lungimiranza di progredire nel corso della propria esistenza, rimanendo ancorati ad un ricordo di noi stessi funzione anche del mondo per come era allora.

Raccontare una storia
Non ho mai disprezzato in quanto tale la presenza di elementi narrativi all’interno di un videogioco. A ben vedere, molti videogiochi ne potrebbero fare a meno (alcuni generi meriterebbero un discorso a parte, ma esula dall’argomento). Questo al di là delle implicazioni soggettive: gli esseri umani vivono di emozioni e di scelte funzionali ad esse, e fornire un motivo valido al giocatore per fare quel che deve fare è uno stimolo in alcuni casi fondamentale. Creare un contesto permette di apprezzare meglio il prodotto, di esserne più coinvolti e di cementare la volontà nel portarlo a termine.

Non di meno, i videogiochi si prestano per il tipo di format a raccontare storie o narrare le gesta di un personaggio. E a differenza di molti ritengo che sia possibile realizzare storie di alta qualità, laddove si pensa che solo altri media possono dar vita a produzioni di spessore da questo specifico punto di vista. Fornire un racconto da seguire non è necessariamente un male, può anzi essere un valore aggiunto: il problema non è la sua presenza, ma COME viene inserito all’interno dell’opera.

Vien da se che gli elementi narrativi, ma anche quelli visivi offerti al giocatore, per quanto espresso in precedenza non devono prevaricare certi confini tali per cui diventino predominanti. Devono semmai essere propedeutici agli elementi cardine del prodotto (gameplay in primis), essere funzionali a loro e arricchire la produzione, qualitativamente e artisticamente. Sfruttando le peculiarità del genere di prodotto in questione.

In questo ambito il più grande limite, non l’unico, cui andiamo incontro sono i tempi narrativi, sebbene si possa considerare “fittizio” (più avanti tale concetto diverrà chiaro). In un film la durata delle scene, le pause, il ritmo, l’alternanza tra una situazione e l’altra e la gestione dei tempi delle battute sono tutti elementi sotto il controllo del regista, o per meglio dire sono gestiti durante la produzione per raggiungere il risultato voluto. Tutti aspetti che incidono sull’espressività stessa, ma che in un videogioco escono fuori controllo. Per ovvi motivi: qualunque scelta a monte in tal senso deve poi scontrarsi sul modo di giocare del singolo fruitore, dal tempo speso per le sessioni di gameplay e dalle scelte compiute quando si prospettano più strade per proseguire. Diventa complicato, se non impossibile, riuscire a mantenere determinate tempistiche e cadenze narrative.

Il “regista” dell’opera ha molto meno controllo ed è dipendente dalle azioni del giocatore, senza neanche poter intervenire direttamente; questo influisce sull’aspetto narrativo e quindi la qualità complessiva dell’opera. In funzione del gameplay questo comporta (dovrebbe comportare) scelte di programmazione che possono minare la bontà della storia in essere, o scendere a compromessi con possibili incongruenze nei passaggi tra il “giocato” e il “narrato”. Uso il condizionale dato che per quanto già espresso non è quello che generalmente avviene, proprio a causa di dove si focalizza l’interesse della produzione. Quasi sempre è il gioco che si adatta alla storia, con conseguenze negative su di esso.

Un punto di riferimento
Ad oggi, tra i videogiochi di cui ho fruito direttamente o di cui ho comunque una buona conoscenza, quello che meglio di tutti reputo sia da prendere a riferimento di come una storia vada narrata nell’ambito di questo tipo di media (a livello concettuale, non di mere scelte pratiche) è Dark Souls.



Probabilmente in molti qui non saranno d’accordo. Sia chiaro che non sto dando una valutazione sulla sua ambientazione, la trama o i personaggi presenti, che per quanto mi riguarda sono comunque di alto profilo. Non è neanche un discorso sulla “cripticità”, connotato usato soventemente nei suoi confronti per non parlare di veri e propri buchi (presunti) di trama. Il punto nodale è che Dark Souls riesce, o per lo meno tenta, di raccontare una storia attraverso le peculiarità del media in questione, sfruttando sapientemente l’elemento dell’interattività.

In precedenza ho citato The Last of Us; per fare un altro esempio ancora più estremo abbiamo Death Stranding. Opera che per Kojima è la concreta esternazione del suo desiderio mai sopito di essere prima di tutto un regista, piuttosto che un autore di videogiochi. Questi due sono tra i prodotti dove è più evidente l’impronta “cinematografica”, volutamente data per la loro realizzazione. Non è un caso, lo ripeto, che il primo si sia perfettamente adattato a diventare una serie TV, mentre sul secondo i filmati sono un aspetto predominante e realizzati con estrema cura, oltre all’utilizzo di un cast di attori di fama.

Ma questo modo di operare non è altro che uno “scimmiottare” (passatemi il termine) proprio al cinema. Il punto di arrivo di un percorso evolutivo degli ultimi 20-25 anni, nell’esasperante ricerca di rendere sempre più simili questi due mondi, anziché attingere quel tanto che serviva per poi adattarlo. Il videogioco perde se stesso alla spasmodica ricerca di copiare sempre più fedelmente il mondo del cinema.

I due titoli sopracitati, ma in generale quasi tutte le produzioni videoludiche di un certo tipo, alternano fasi di gioco a intere sequenze filmate. Come detto, il gioco è spesso una sorta di intermezzo tra due fasi narrative, dove tramite filmati, o al limite scene di dialogo che danno solo una parvenza di interattività, ci viene raccontata passivamente la storia. In qualche modo il succitato Death Stranding, con le sue meccaniche mentre effettivamente giochiamo cerca in qualche modo di trasmettere un messaggio, ma non aggiunge elementi narrativi, e a mio avviso comunque fallisce parzialmente anche nel suo intento.

È come avere due oggetti ben distinti che, in qualche modo, vengono uniti insieme senza però amalgamarsi, rimanendo separati al loro interno e spezzettati per generare la suddetta alternanza. L’interattività non è più un elemento caratterizzante, ma un pretesto filosofico che rimane “confinato” solo nella parte giocata, e al tempo stesso sminuito all’interno di un gameplay mediocre, inserito solo di contorno. Sotto questo punto di vista, seppur di altissima qualità complessiva i giochi che ho nominato falliscono miseramente.

Questo ovviamente non vuol dire che trame e avventure raccontate secondo la concezione classica della cinematografia non siano di alto livello, e di esempi ce ne sono diversi. Né che all’interno di un contesto videoludico non possano esistere, che in quanto tali rappresentano comunque un valore aggiunto in grado di arricchire il prodotto finale. E di sicuro non è un discorso legato al piacere personale: io stesso apprezzo, a volte molto, alcune di queste opere che chiamo per l’appunto “film interattivi”. Il mio è un discorso di sistema e di significato, che esula dalla qualità che in quanto tale può essere comunque molto elevata.

Per questo ritengo evidente il fallimento dell’industria da questa prospettiva (non necessariamente sul lato economico), sebbene sia conscio del motivo di certe scelte. Software house e publisher non sono delle onlus ma vivono per generare guadagni, e quando gli investimenti sono alti si cerca la via più profittevole senza guardare in faccia nessuno. E questo quasi sempre passa per la soddisfazione di un pubblico più ampio possibile, non certo per cercare di rendere giustizia ad un certo tipo di prodotto. Di sicuro, in questo stato di cose nessuno vuole correre dei rischi, in particolare le grandi aziende del settore.

L’INSEGNAMENTO DI DARK SOULS



La From Software, in quanto tale, è da sempre uno studio relativamente piccolo. Ha sempre mosso molti meno investimenti rispetto ad altre realtà affermate, e al tempo stesso non ha mai fatto quel “salto” che la portasse ad essere un competitor al pari di grossi colossi. Laddove una Bethesda vende 60 milioni di copie ogni volta che esce con un nuovo titolo, From Software in oltre 35 anni ha superato le 10 milioni di copie solo in un paio di occasioni, peraltro soprattutto grazie agli sforzi del publisher di rendere più “mainstream” i suoi titoli. Al tempo stesso, nella figura di Hidetaka Miyazaki, ha una guida artistica dai principi molto solidi e difficilmente influenzabile dall’esterno, cosa peraltro resa evidente di contrasto proprio col secondo capitolo di Dark Souls dove lui era assente.

La disamina della narrativa di Dark Souls è per certi versi anche un esperimento antropologico, perché mostra quanto la gran parte degli stessi videogiocatori siano poco propensi a fruire delle specifiche dinamiche del media in questione (giustificando, così facendo, le scelte di mercato). È un discorso che meriterebbe un articolo a parte e aperto a molte interpretazioni. Cercando di riassumere il concetto: gran parte dei giocatori vuole che le cose gli siano “sbattute in faccia”, senza che se le debbano andare a cercare e possibilmente col minimo della fatica necessaria.

Affermazione indubbiamente contestabile perchè non contestualizzata e fin troppo netta, soprattutto se si parla di singoli soggetti. Ma per dirla in termini semplici e concisi: tra le altre cose, Dark Souls differisce da giochi ben più acclamati per il loro intreccio narrativo proprio per come le informazioni possono essere recepite.

Come sfruttare l’interazione
L’interazione, in quanto tale, si può esprimere all’interno di un videogioco in molti modi. Muoversi all’interno degli spazi concessi, la manipolazione di un oggetto o elemento della mappa, ovviamente l’utilizzo delle capacità a noi concesse con le conseguenze che queste comportano, ma anche la visione degli ambienti di gioco, l’ascolto dei suoni come informazione da sfruttare, o una decisione ben precisa di fronte ad una scelta (palese o meno).

Una vera evoluzione del media videoludico deve passare attraverso l’interazione: pur non essendo l’elemento che identifica il videogioco rispetto ad un film, ne è comunque un’unicità. E se in un film non si sfrutta perché non ha modo di esistere, in questo caso si sceglie scientemente di farne a meno, tramite una mera opera di copia/incolla (lo scimmiottare di cui sopra) dei criteri espositivi del cinema. Dato quest’approccio, scelto anche per questioni di comodo, l’interattività viene relegata solo alle parti giocate che, come già detto, sono secondarie e al tempo stesso rese quanto più facili ed immediate possibili. Ne risulta non più un videogioco, ma un film “diluito” e spezzato da fasi di intermezzo che si cerca di rendere corte ed immediate.

Siamo di fronte ad una vera e propria occasione mancata: pur avendo a disposizione i mezzi tecnici e intellettuali per poter rendere “adulte” le produzioni videoludiche, non si è capaci (o non si ha la volontà) di raggiungere un vero e proprio step evolutivo. Si realizzano produzioni ogni volta più grandi, si affinano sempre di più i vari aspetti, si utilizzano tecniche sempre più evolute per la realizzazione di filmati e della grafica in gioco, ma nella sostanza si è fermi al palo da almeno 15 anni. Per certi versi si è anche involuti: meccaniche e scelte di gioco elaborate anche decenni fa si sono perse nel corso del tempo, e quando vengono magari riproposte in forma semplificata e parziale a volte si grida al miracolo, come se fosse qualcosa di mai visto; e proprio Dark Souls ne è un esempio lampante.

Io non mi aspetto, né pretendo, che l’ambientazione e la storia di Dark Souls debbano piacere. Quello che affermo è che in qualche modo scardina questo paradigma del mercato, fornendo una narrativa che si sviluppa su un modello diverso, che in qualche modo “impone” al giocatore di essere attivo per ricomporre il puzzle che si trova davanti. Attenzione: non sto dicendo che il sistema di Dark Souls sia l’unico possibile, o che è il più adatto (dipende anche dal genere), ma che a differenza di tutti gli altri ha capito, in qualche modo, che la narrazione va coniugata all’interno di un contesto ludico-interattivo, relegando le scene statiche solo allo stretto necessario.

Il giocatore come parte attiva del flusso narrativo
Il gioco inizia con un breve filmato introduttivo, che fornisce alcuni elementi che appariranno sul momento poco chiari, da definire nel corso della partita, alla scopo di fornire una base di conoscenze. Starà poi al giocatore, SE ne avrà la volontà, riuscire a dargli un senso e al contempo sfruttarli per ricostruire il quadro d’insieme, passando attraverso l’acquisizione delle informazioni disponibili in gioco interagendo con esso. In questo senso, ad esempio, assume un tratto distintivo la descrizione fornita per ogni singolo oggetto che il giocatore può ottenere: una scelta semplice e per certi versi banale, ma con conseguenze concrete.

Il giocatore non si trova all’interno di un contesto nel quale sa che, una volta superato, arriverà ad un filmato o un personaggio che ci spiegherà una parte della trama o dell’ambientazione. In realtà è chiamato ad esplorare (interagire) per ottenere i pezzi di un enorme mosaico che uniti insieme formano la storia del gioco. La stessa posizione dei vari oggetti non è mai casuale, riflettono in maniera fedele il significato della loro presenza e ci forniscono ulteriori indicazioni o richiami.

Il modo in cui gli oggetti sono usati per narrare rappresentano però un ingranaggio all’interno di un meccanismo stratificato. Il giocatore è in effetti richiamato a ricostruire la trama e il passato stesso (del mondo e i vari personaggi), collegando tra loro non solo queste descrizioni ma anche le frasi fornite nei dialoghi che, prese a se stanti, potrebbero sembrare non significative (e in nessun caso il gioco ci condurrà a questi dialoghi, tutto sta al giocatore come trovarli e se attivarli), o la conformazione dei luoghi visitati, che offrono ulteriori richiami permettendo di dare un senso alle informazioni finora raccolte.



Ogni elemento del gioco ha una sua logica, mai casuale e sempre contestualizzato: si veda la strutturazione dei vari ambienti, così come i nomi dei personaggi o alcune loro caratteristiche fisiche, tutti richiami voluti che non sono puramente estetici. Come Anor Londo, che è un chiaro nonché dichiarato riferimento al Duomo di Milano. Il giocatore per certi versi viene anche spinto per mezzo di precise scelte di design, come l’assenza di una mappa o di qualunque radar, che impone di memorizzare ed esplorare a fondo le aree di gioco, favorendo l’apprendimento del mondo e i suoi ambienti. Si deve in qualche modo svolgere un compito attivo.

Questo tipo di approccio sovverte il ruolo stesso degli elementi visivi ambientali e di gioco: non sono creati per giustificare un fatto che ci è stato narrato, ma svolgono loro stessi una funzione narrativa senza la quale verrebbero a mancare particolari fondamentali per la comprensione complessiva. Questo si riflette anche sugli scontri, in particolare ma non solo contro i boss, che in qualche modo ci raccontano qualcosa: il motivo per cui Queelag ci attacca per ottenere le anime in nostro possesso, quale è stato il destino di Izalith, o come Gwyn è diventato l’ombra di se stesso in uno scontro finale che nel suo essere semplice (soprattutto una volta capito il giusto metodo per affrontarlo) implichi di per se la fine di un era e un passaggio di consegne. La stessa presenza di alcuni nemici in certe aree può essere indicativa: ad esempio i golem di cristallo, creature legate a Seath il senzascaglie, presenti al Bacino Radice Oscura indicano un’esplicita relazione tra il luogo e il drago traditore, resa ancor più evidente anche da altri particolari.

A differenza del pensiero di molti, in realtà Dark Souls offre tantissima narrativa, la differenza sostanziale è il modo in cui la presenta, cercando di adattarla a quelle che sono le peculiarità di un videogioco, soprattutto rispetto ad altri media. Ciò che contraddistingue il gioco è la necessità per il giocatore di dover cercare attivamente tutte queste informazioni: può tranquillamente completarlo senza fare alcunchè in tal senso, ma rimane una scelta (interazione) del giocatore. Un concept di gioco che, nella sua visione più estrema, rende il fruitore stesso dell’opera come un creatore di contenuti, data la necessità di coprire il “non detto”, seppur logicamente intuibile una volta che abbiamo in mano tutte le conoscenze ottenibili, al di là di alcuni inciampi comunque presenti.

Far combaciare tutti i pezzi
Le trame di eventi e personaggi in un primo momento possono apparire come una serie di pezzi sconnessi tra loro, ma una volta raccolti tutti e studiati è possibile ricomporli in un unico quadro complessivo, coerente al suo interno. Si prenda ad esempio la storia di Artorias: possiamo scoprire che è uno dei 4 cavalieri di Gwyn, che ha varcato per due volte la soglia dell’Abisso per delle missioni, che le ha fallite entrambe e nell’ultimo tentativo ha sacrificato il braccio e lo scudo (oltre alla sua sanità mentale, diventando vuoto) per salvare il suo compagno Sif. Sappiamo il perché delle sue azioni, contro chi ha fallito e anche delle conseguenze che hanno avuto su Lordran (Petit Londo). Tutto questo non ci viene narrato direttamente, ma è possibile ricostruirlo dalla descrizione degli oggetti, la loro posizione, i dialoghi dei personaggi, la locazione dei vari elementi di gioco (compreso Artorias stesso), perfino dagli avversari affrontati o dal comportamento di Sif se portiamo avanti il gioco con una certa sequenza di azioni intraprese. Il suo stesso nome è un riferimento dichiarato a Re Artù, creando un parallelismo a sua volta foriero di ulteriori informazioni.

Una narrativa che non è fine a se stessa, o piazzata solo per dare un senso alle nostre azioni. Il mondo di gioco è costruito in maniera altamente funzionale, risultando coerente con se stesso e grazie a questo permette al giocatore una ricostruzione dei fatti che sia fedele, o quanto meno molto vicina, a quella degli autori. Coerenza che è anzi fondamentale, perché in sua assenza il giocatore si troverebbe facilmente di fronte a situazioni ambigue o di aperto contrasto tra loro. Questo pur evidenziando una manciata ristretta di aspetti che rimangono comunque nebulosi (vedasi ad esempio la vera identità di Solaire, sulla quale si è speculato molto ma dove mancano degli elementi per comprenderla appieno).

Un tipo di rappresentazione che come qualunque forma espressiva può parlare anche di concetti profondi e fornire spunti di riflessioni non banali: vale per qualunque tipo di produzione. Anche qui Dark Souls offre diversi spunti, in particolare con evidenti parallelismi tra il gioco e la vita reale. Si veda il concetto di essere vacuo privo di qualunque scopo che si limita ad “esistere” agendo solo d’istinto, ma ancor più quello di Anima Oscura e di Umanità. Da un lato l’idea che in tutti noi alberga un lato oscuro (il nano furtivo “genera” gli esseri umani dividendo l’anima che ha trovato), dall’altro che in qualche modo “essere” umano è quello che ci permette di “vivere”. È solo un esempio, ma indicativo, che anche in un videogioco si possono trattare temi di qualunque tipo a qualunque livello, lasciando la porta aperta a molte interpretazioni. L’unico limite è nella percezione che si ha ancora per questo tipo di arte.

Questo modo di raccontare diventa peculiare rispetto ad altri metodi, basato su diversi tipi di stimoli sensoriali, con tutta una serie di conseguenze. Tra queste la non consequenzialità degli eventi e delle conoscenze acquisite, e il “tempo di narrazione”: il suo incedere è autoregolato dal ritmo e le scelte del giocatore all’interno del gameplay stesso, si adatta di continuo per cui non è mai nè troppo corto, nè troppo lungo. Dark Souls insegna che i videogiochi possono avere il loro modo unico di comunicare, di raccontare, di trasmettere il proprio messaggio. Una diversità in cui il giocatore svolge un ruolo fondamentale, dove la raccolta e unione dei vari pezzi del puzzle può in taluni casi lasciarci con un velo di insicurezza sulla nostra ricostruzione, creando un alone di mistero che ci stimola a scendere ancor più in profondità.



Sia lode al Sole
A prescindere dai temi trattati, che possono essere i più disparati, quello che rende quasi un unicum Dark Souls è l’approccio col quale affronta l’aspetto narrativo, creando una netta separazione rispetto a quasi tutto il resto della produzione videoludica. Potrà non essere ottimale, potrà non piacere, potrà risultare più ostico, ma è indubbiamente più coerente con il tipo di intrattenimento che dovrebbe fornire un prodotto del genere. E da questo approccio si genera una vera simbiosi con l’aspetto ludico, dove il racconto viene effettivamente narrato mentre giochiamo.

Il rovescio della medaglia risiede nella necessaria volontà del giocatore di essere più attivo durante le ore passate davanti allo schermo con il pad il mano. Una richiesta di impegno, attenzione e concentrazione che non tutti sono disposti a mettere, ma che al tempo stesso è una lapalissiana conseguenza proprio della necessità di interazione che è insita in un videogioco, senza la quale viene meno il suo stesso significato.
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