Er Monnezza |
18-12-2006 12:05 |
grandissimi gli Iron Maiden e i Dream Theater, io ultimamente mi sto assillando con l'album Live to Win di Paul Stanley (il cantante dei Kiss), e il nuovo album dei My Dying Bride, A Line of Deathless Kings.
Sentite un pò la recensione di A Line of Deathless Kings, assolutamente ipnotico come i precedenti, un Must per gli amanti del metal
Affermare che i My Dying Bride siano, a tutt'oggi, uno dei pochissimi gruppi in grado di portare avanti, e far progredire un genere stantio (già ha dato i suoi frutti in passato) come il doom melodico, non è affatto azzardato.
Da più di una decade portano avanti il loro discorso con una coerenza difficilmente riscontrabile altrove, ma con risultati ancora oggi sbalorditivi.
Partiti insieme ad altre ex-stelle del firmamento doom mondiale come Anathema, Katatonia e Paradise Lost, i nostri hanno deciso di assestarsi sullo stile di partenza, mentre i primi due optavano per una progressione di stile azzeccatissima, mentre gli ultimi sceglievano un sentiero alquanto autolesionista. Ma a ben vedere, se i risultati raggiunti dai My Dying Bride sono ancora così egregi, come in quest'ultimo album, non c'è di che preoccuparsi.
Le progressioni e le sperimentazioni non sono mancate nella loro discografia (ricordate le esperienze elettroniche del bel “34.788 %...complete”?) ma qui si torna alle origini, perciò nulla di nuovo all’orizzonte, se si esclude un maggior appesantimento delle chitarre, un uso quasi totalmente in pulito della voce, e le tastiere usate come contorno e non come elemento principale. Sia ben chiaro, sempre di doom con influssi melodico-decadenti si parla, ma si odono qua e là appesantimenti thrash/death e strutture che non possono non chiamare i causa il prog che fu (“L'amour Detroit” è esemplare in tal senso); si odono anche richiami elettronici, che riportano alla mente le sperimentazioni del suddetto lavoro (la bellissima “One of beauty's daughters”).
Hanno un dono i My Dying Bride, ed è quello che molte band odierne del medesimo genere cercano invano di scopiazzare, e cioè il saper creare atmosfere malinconiche, romantiche, decadenti ed oscure allo stesso tempo; riuscendo a raggelarti il sangue e a farti provare brividi lungo la schiena nel medesimo istante. Ti accelerano i battiti, e te li stoppano del tutto. Ti soffocano e ti fanno piangere.
La voce di Aaron Stainthorpe, poi, è qualcosa di sovrumano per la facilità con cui riesce a trasmettere emozioni dapprima profonde e tragiche, poi di terrore e di paura (la desolata e terrorizzante “Love's intolerable pain”). Una delle migliori in circolazione in tale ambito.
Bellissima la conclusione "The blood, the wine, the roses" che va a chiudere l'album come non te lo aspetteresti, cioè con una possente bordata di death-thrash sparata a mille, cattiva e malvagia, che ti raggela il sangue e ti lascia lì, senza parole...ancora una volta.
Nient'altro che parole d'elogio per una band che ha deciso sin dal primo momento di mettere al primo piano la coerenza, senza però perdere di vista la principale dote: quella di creare Musica, con la M maiuscola, capace di toccare le corde più profonde dell'animo.
La storia si ripete. Grazie ancora una volta!
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