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View Full Version : 29 luglio 1983-29 luglio 2006: ROCCO CHINNICI


dantes76
29-07-2006, 10:38
29 LUGLIO 1983
Strage di via Pipitone, a Palermo. Per assassinare il giudice Rocco Chinnici Cosa Nostra adoperò un'auto-bomba. Insieme a Chinnici vengono massacrati i carabinieri Mario Trapassi e Edoardo Bartolotta,il portinaio di casa Chinnici, Stefano Lisacchi. Rocco Chinnici era il capo dell'ufficio istruzione del tribunale di Palermo e l'amico fraterno del procuratore Gaetano Costa. I responsabili dei due uffici giudiziari, per la prima volta, si muovevano in sintonia contro le cosche.
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Rocco Chinnici «La mafia economica»

a cura di Giorgio Bongiovanni

Le fotografie presenti nel servizio sono state pubblicate per gentile concessione di: Letizia Battaglia, Franco Zecchin, Shobha.

La straordinaria attualità di questo scritto di Rocco Chinnici contiene in sè già molte delle chiavi per comprendereLa straordinaria attualità di questo scritto di Rocco Chinnici contiene in sè già molte delle chiavi per comprendere la potenza di Cosa Nostra. Lo riproponiamo affinché se ne possa apprezzare l’importanza.

I procedimenti penali che dalla fine della primavera del 1980 sono in corso di istruzione o sono stati già istruiti presso il tribunale di Palermo contribuiscono in misura notevole, se non proprio determinante, a far conoscere quella che è oggi la mafia in Sicilia, le sue reali dimensioni, la sua collocazione nella criminalità organizzata nazionale ed internazionale; più precisamente, quali caratteristiche peculiari essa è andata assumendo dalla fine degli anni sessanta ai nostri giorni.



II. L’azione repressiva delle forze dell’ordine, seguita alla strage di Ciaculli, aveva posto fine agli scontri tra i gruppi mafiosi rivali Greco-La Barbera che avevano insanguinato la città; la istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso, specie nei primi tempi, aveva avuto l’effetto di contenere e scoraggiare la criminalità mafiosa, anche perché attraverso una azione, condotta con fermezza, si era cercato di individuare il rapporto tra i diversi gruppi mafiosi operanti nelle quattro provincie della Sicilia occidentale e quelle forze politiche reazionarie che dal 1943, con metodi e sistemi diversi, avevano rafforzato i gruppi stessi favorendone l’espansione ed incrementandone l’influenza in quasi tutti i settori della vita pubblica.

L’omicidio di un boss di borgata, Francesco Mazzara, avvenuto nell’agosto del 1967, la strage di viale Lazio, dicembre ‘69, segnano, a parere di chi scrive, il momento iniziale della escalation mafiosa, che neppure il processo ai 114 mafiosi, seguito alla uccisione del procuratore della repubblica dott. Scaglione, riuscì a fermare.



III. Già agli inizi e a metà degli anni sessanta era stato segnalato alla procura della repubblica di Palermo che gruppi mafiosi erano dediti alla esportazione negli Usa di sostanze stupefacenti. Due procedimenti penali, uno a carico di Garofalo Francesco +20, l’altro contro Davì Pietro +106, avevano posto in evidenza come la mafia, pur continuando a gestire il contrabbando di tabacchi lavorati esteri, a controllare il mercato delle aree edificabili e delle acque per uso irriguo, a ricattare commercianti, imprenditori, agricoltori, pur facendo avvertire pesantemente la sua presenza nella vita politica ed amministrativa attraverso collegamenti con il potere, aveva iniziato una attività nuova, il commercio di cocaina, eroina e di altri stupefacenti.

E’ del 1972 il sequestro a New York di kg. 83 circa di eroina introdotta negli Usa con la motonave Raffaello in partenza da Genova. Per tale fatto delittuoso furono condannati negli Usa Francesco Rappa, Giacomazzo Giuseppe e D’Aloisio Lorenzo.

Dal 1972 al 1978 il traffico illecito sicuramente prosegue; e però solo nell’agosto 1978 viene riferito alla procura della repubblica di Palermo di un grosso traffico di eroina nel quale figurano implicati gruppi mafiosi del palermitano che operano nel campo internazionale della produzione e dello smercio dell’eroina, collegati con le famiglie di “Cosa Nostra” in una vasta e potente organizzazione che negli

Usa viene denominata “crimine organizzato”. E’ la prima volta che in un rapporto di polizia giudiziaria (estensore fu il vice questore dott. Boris Giuliano che nel luglio 1979 pagò con la vita la propria dedizione al dovere) si parla, in modo esplicito, di un fiume di dollari che dagli Usa arriva in Italia, con i mezzi più disparati, così come con mezzi e modalità diversi viene spedita negli Usa la sostanza stupefacente (eroina) prodotta – come sarà accertato nel 1980 e nel 1981 attraverso la localizzazione e la scoperta di quattro laboratori – a Palermo ed in località vicine.

E’ proprio negli anni settanta che le famiglie mafiose del palermitano, ma non soltanto del palermitano, assumono caratteristiche e comportamenti nuovi. I figli e i nipoti di quei mafiosi che dopo l’occupazione alleata si erano inseriti (o erano stati inseriti) prepotentemente nei centri direzionali della vita politica e amministrativa della Sicilia occidentale diventano ora imprenditori industriali, commerciali, agricoli.

Gli utili rilevantissimi ricavati dalla produzione e dalla vendita dell’eroina, calcolati in diverse migliaia di miliardi, attraverso il cosiddetto riciclaggio, operato da istituti di credito, da casse rurali ed artigiane, alcune delle quali gestite, anche se per interposta persona, dagli stessi mafiosi, vengono investiti nell’edilizia, nella trasformazione agraria, in attività commerciali e industriali dall’apparenza del tutto lecita. Palermo, capoluogo della regione, è forse la sola città d’Italia nella quale si contano, a centinaia, i cantieri edili; è una delle poche città nella quale, malgrado la crisi economica, vengono aperti lussuosi negozi, dove si nota un certo benessere, dove il denaro circola abbondantemente.

A parte le “sacche” del sottoproletariato del centro storico e di taluni rioni periferici (quartieri Zen, Borgo Nuovo) nei quali c’è indigenza e analfabetismo e che forniscono la manovalanza alla criminalità comune, responsabile di furti e rapine, la città vive in condizioni economiche che nulla hanno da invidiare alle più progredite metropoli del resto d’Italia. Certamente non mancano disoccupazione e sottoccupazione; prospera, però, il lavoro nero che attenua le conseguenze di una economia che ha fatto ben pochi progressi nel campo industriale.



IV. La mafia, come si è accennato, vive oggi i suoi momenti migliori. Pur dilaniata da un anno a questa parte da contrasti interni sfociati in oltre cinquanta omicidi (nel numero non sono compresi gli omicidi cosiddetti comuni e le “lupare bianche”) continua nell’attività della produzione e del commercio di sostanze stupefacenti. La scoperta del laboratorio per la trasformazione della morfina base in eroina avvenuta nella periferia della città nel mese di febbraio del corrente anno, costituisce la prova del fatto che gruppi mafiosi, malgrado l’azione della polizia e della magistratura, non desistono dalla attività criminosa, fonte di ingenti profitti.

I processi in corso d’istruzione, oltre quelli già definiti, hanno messo in luce una realtà che se pure talvolta segnalata, non era stata sufficientemente provata; si tratta dei collegamenti tra i gruppi mafiosi siciliani con quelli calabresi e napoletani. Già in passato, con riferimento alle associazioni mafiose dedite al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, si era parlato di siffatti collegamenti. Alcuni procedimenti già definiti in istruzione (Spatola Rosario +119, sentenza del giudice istruttore dott. Falcone del 25 gennaio 1982) (1), altri

in corso di istruzione (La Mattina Nunzio +40, Mondello Girolamo +18) provano, in modo inequivocabile, che esistono strettissimi legami tra le organizzazioni mafiose delle tre regioni; dimostrano, anche, che tali organizzazioni, nella produzione e nel commercio dell’eroina, sono in rapporto con le organizzazioni internazionali, segnatamente con le famiglie mafiose d’origine siculo-calabro-napoletana, destinatarie dell’eroina prodotta in Sicilia e in Calabria (2) ed operanti negli Usa e nel Canada.

Si è detto e si continuerà ad affermare da parte degli imputati delle tre regioni, nei confronti dei quali, attraverso intercettazioni telefoniche ed accertamenti presso istituti di credito è stato possibile accertare l’esistenza di rapporti, apparentemente leciti, che nessun legame, se non quello di affari, esiste ed è mai esistito tra loro; se è vero - come è stato provato - che Salvatore Inzerillo, ucciso, come è noto, a colpi di Kalashnikov in un suo cantiere edile di Palermo, nel momento in cui usciva dall’autovettura blindata, costruiva ville ed edifici, unitamente a Luigi Gambino, a Francesco Mazzaferro e a Natale Anello, questi ultimi due calabresi, nella zona di Sauze D’Oulx (Bardonecchia); che, in diversi processi in corso d’istruzione, assegni bancari e circolari per centinaia di milioni – fors’anche di miliardi – emessi a Napoli e in Calabria sono stati negoziati a Palermo da appartenenti ad associazioni mafiose; può ritenersi soltanto semplice espediente difensivo il voler negare l’esistenza dei rapporti concreti sicuramente illeciti tra i gruppi mafiosi delle tre regioni, con i collegamenti nelle città industrializzate, Torino e Milano in modo particolare, o farli apparire del tutto leciti. E sempre a proposito dei rapporti tra camorra, ‘ndrangheta e mafia, non è senza significato che i più grossi nomi del contrabbando napoletano di tabacchi lavorati esteri con i potenti mezzi finanziari di cui dispongono figurano quali protagonisti nelle due inchieste di mafia e droga che stanno per essere condotte a termine presso l’ufficio istruzione del tribunale di Palermo (Mafara Francesco +24; Macaluso Joseph +9) ed in altre che, preso l’avvio presso la procura della repubblica di Roma, sono state trasmesse a Palermo per competenza territoriale.

D’altra parte, deve essere posto in rilievo che non è solo il filone d’oro dell’eroina che ha determinato lo stretto collegamento fra le tre associazioni criminose. Procedimenti penali, istruiti o definiti a metà degli anni sessanta dei quali già si è fatto cenno (Garofalo Francesco +20, Davì Pietro +106) provano che, già fin da allora, i legami tra le tre organizzazioni, anche se meno intensi, sussistevano ed erano caratterizzati da attività di contrabbando e, in misura minore, da altri illeciti (sequestri di persona).



V. L’accumulazione degli enormi profitti, tratti dalla produzione e dal commercio degli stupefacenti, dal contrabbando di tabacchi lavorati esteri, dalle estorsioni, dal cosiddetto pizzo, dai sequestri di persona, ha trasformato le famiglie mafiose in società imprenditrici.

E’ questa una realtà nuova sulla quale si è rivolta recentemente l’attenzione di noti studiosi di sociologia e di economia. Si è rilevato da costoro che le famiglie mafiose, un tempo costituite e dirette da campieri e soprastanti, padroni e servi, in Sicilia, di baroni e cavalieri, non sono più in condizione parassitaria, essendo diventate delle vere imprese che operano nell’edilizia, nell’agricoltura e nel commercio; e pertanto oltre che forza reazionaria e criminale, collegata da sempre col potere, la mafia, oggi, sarebbe diventata potenza economica che condizionerebbe financo il potere. Pur non negando validità a siffatta tesi, non si possono tuttavia condividere le conseguenze estreme alle quali gli stessi studiosi pervengono quando affermano che le organizzazioni mafiose, oggi, non avvertirebbero più la necessità di

mantenere rapporti col potere. Chi scrive è convinto che, oggi più che ieri, la mafia inserita come è nella vita economica dell’isola non può fare a meno di tali rapporti; lo dimostrano avvenimenti, piuttosto recenti, che hanno visto imprese mafiose aggiudicarsi appalti di opere pubbliche per decine di miliardi estromettendo altre concorrenti, non mafiose, o comunque, non legate direttamente o indirettamente alla mafia (3). L’omicidio del presidente della regione Piersanti Mattarella, caduto nel tentativo generoso di dare un volto nuovo alle pubbliche istituzioni e nel momento in cui, predisponendo le necessarie riforme, stava per passare dalla enunciazione di linee programmatiche dirette ad estromettere mafia e sistemi mafiosi dai gangli vitali della regione, alla realizzazione delle stesse, costituisce la drammatica riprova della validità della tesi che qui si sostiene. Si aggiunge, inoltre, che la mafia, oggi come nel passato, non può mantenere posizioni di rilievo nella vita siciliana, non può avere incidenza politica, se abbandona schemi collaudati da oltre un secolo, se, forte della potenza economico-finanziaria raggiunta, allenta i vincoli che la legano al potere.

E se è vero che, per il raggiungimento di determinati obiettivi illeciti, ha mutato metodi e sistemi gangsteristici, è fatto incontestabile che il rapporto con certi settori del potere permane tuttora pur se, per ragioni contingenti, esso sembra meno appariscente di quanto non fosse qualche anno fa. Onde, in Sicilia, parlare di mafia vecchia e di mafia nuova non ha senso, così come non ha senso, per ragioni che sarebbe lungo esporre, parlare di mafia come fenomeno di massa, di mafia che gode del consenso popolare, di mafia come stato mentale diffuso a tutti i livelli.

Indubbiamente, le imprese mafiose che operano nell’edilizia, nell’agricoltura, nel commercio, proprio per il fatto che creano posti di lavoro e producono ricchezza possono incidere nel tessuto socio-politico ed economico della regione nel senso che in occasione di consultazioni elettorali possono orientare parte dell’elettorato. (E’ noto il caso di un mafioso il quale, finito di scontare il soggiorno obbligato, per ottenere la riassunzione presso un ente controllato dalla regione, in occasione di una consultazione elettorale riuscì a capovolgere la situazione preesistente presso il comune di origine, quella stessa situazione che in passato egli era riuscito a manovrare in modo diverso). Ciò però non può significare adesione o consenso alla mafia; l’episodio riferito ed altri risultati di competizioni elettorali anche in grossi centri della Sicilia occidentale provano che là dove esistono condizioni economico-sociali depresse la mafia può approfittarne per accrescere la propria potenza ed il proprio prestigio.



VI. Valutando attentamente le indicazioni che provengono dai procedimenti penali passati al vaglio del giudice ed ai quali si è fatto cenno, si può affermare, senza tema di smentita, che oggi le associazioni mafiose (camorra e ‘ndrangheta comprese) hanno assunto un ruolo assai importante anche nell’ambito della criminalità organizzata internazionale; in proposito, la sentenza istruttoria del giudice Falcone così come quella emessa nei confronti di Sollena Salvatore +24, costituiscono un punto fermo, dimostrativo della potenza e della espansione del fenomeno criminale siculo-calabro-napoletano, oltre che in campo nazionale, anche in quello internazionale. “La multinazionale della droga” non è espressione giornalistica, né è priva di significato. Le indagini condotte da Falcone, in particolare, hanno messo in evidenza i legami della mafia siciliana e di quella calabrese e napoletana e dei gruppi che operano nell’Italia del Nord,

con trafficanti di eroina e di armi belgi, francesi, mediorentali; hanno fornito conferma al fatto che le potenti famiglie mafiose che operano negli Usa e nel Canada e che provengono in massima parte dalla Sicilia occidentale, con particolare riferimento ai traffici illeciti di eroina, sono in posizione di dipendenza rispetto alle associazioni mafiose dei paesi di origine specie dopo che il centro di produzione dell’eroina si è spostato dalla Francia meridionale a Palermo e fors’anche in Calabria e nel napoletano. L’arresto avvenuto a Palermo del medico francese André Bousquet, di Dominique Quilichini, di Pietro Doré, di Jean Claude Ranem, imputati, unitamente a Gerlando Alberti ed altri mafiosi siciliani, di produzione e di traffico di eroina a seguito della scoperta di un laboratorio per la trasformazione della morfina base in eroina avvenuta nell’agosto del 1980 in un comune del palermitano, avvalora la tesi di coloro i quali sostengono che oggi il centro principale degli interessi mafiosi internazionali è costituito dai laboratori clandestini installati in Sicilia; l’isola, al centro del Mediterraneo, in posizione strategica, è anche punto di smistamento e di produzione clandestina di armi, attività quest’ultima che vede interessate le organizzazioni mafiose che operano in stretto rapporto con i trafficanti internazionali. E’ questo un capitolo inedito e nuovo intorno al quale si sa ben poco; pur se da qualche tempo si parla di rapporto tra associazioni mafiose e gruppi eversivi sia di destra che di sinistra operanti anche all’estero, a livello giudiziario in Sicilia non risultano elementi di certezza con riferimento a tali rapporti.

E’ assai probabile che i gruppi mafiosi siano interessati a rifornire di armi le organizzazioni eversive; ciò, però, al solo ed esclusivo scopo di lucro dal momento che, come è stato storicamente accertato, la mafia non ha mai avuto credito politico. Se qualche volta, in passato, essa ha preso apertamente posizione, così come è avvenuto nel 1943, quando aderì al movimento separatista siciliano, ciò non può essere interpretato in chiave politica bensì in funzione semplicemente utilitaristica; la validità di siffatta tesi non può essere posta in discussione. Se si considera, infatti, che il movimento separatista ebbe la durata di qualche anno e che già alle prime elezioni regionali la mafia era transitata nel Mis (Movimento per l’indipendenza siciliana) di tendenza autonomista ed in taluni partiti cosiddetti “unitari”, si deve pervenire alla conclusione che in Sicilia la mafia sta dalla parte del potere, lo permea, spesso lo condiziona, per trarre dal rapporto con esso il maggior vantaggio possibile.



VII. Le argomentazioni svolte, pur se estremamente sintetiche, offrono un quadro di quella che è oggi la mafia nelle sue manifestazioni criminali, intesa la espressione nel significato tecnico e tradizionale. C’è da chiedersi, però, se le associazioni mafiose siciliane ed il crimine organizzato, così come vengono definite negli Usa le organizzazioni mafiose che operano nel territorio di quegli stati in collegamento con i gruppi criminali di altri paesi, non abbiano anche rapporti con gruppi economico-finanziari esteri. L’interrogativo appare di estremo interesse, e pur se non è facile fornire una risposta certa non si può escludere che sia a livello nazionale che internazionale tali rapporti sussistano.

Indubbiamente non si può lavorare di fantasia in una indagine che richiede elementi certi e fatti obiettivamente riscontrabili. Negli ultimi anni, però, le cronache giudiziarie hanno avuto modo di occcuparsi diffusamente del caso Sindona. E che cosa costituisce la vicenda del banchiere siciliano se non un emblematico esempio di intrecci non del tutto chiari tra potere politico-finanziario e mafia? Se

pure ancora oggi non si è fatta piena luce sugli intricati e a volte drammatici fatti di cui il Sindona appare il principale protagonista, rimane tuttavia fermo ed accertato il rapporto tra il Sindona stesso ed i gruppi mafiosi siculo-americani dediti alla produzione e al commercio di sostanze stupefacenti. Indubbiamente oscuri interessi ed attività criminose, solo parzialmente scoperte, sono alla base di rapporti nei quali sarebbe ingenuo ritenere coinvolti soltanto Sindona ed il gruppo mafioso palermitano Spatola-Inzerillo.

Se si dovesse dare interamente credito a notizie di stampa apparse in questi ultimi tempi, si dovrebbe ammettere che i gruppi e le famiglie mafiose che operano in campo internazionale nel settore degli stupefacenti, in modo particolare dell’eroina, sono finanziati e protetti da potenti società che gestiscono negli Usa istituti di credito con bilanci assai consistenti capaci di incidere nella vita economica non solo degli Usa, ma di taluni stati del centro e del sud America e del nostro paese. L’omicidio di Pio La Torre, deputato nazionale del Pci e segretario regionale in Sicilia, attivissimo combattente della lotta contro la mafia fin dagli anni dell’immediato dopoguerra, instancabile protagonista del movimento per la pace, organizzatore della campagna contro la installazione dei missili a Comiso, avvenuto a Palermo il 30-4-1982 con modalità tipicamente mafiose, sarebbe stato eseguito in attuazione di un disegno criminoso maturato in ambienti nei quali mafia, terrorismo politico e grossi interessi finanziari ed economici si fondono, nell’intento di porre ostacoli a quei movimenti progressisti che propugnano la libertà dell’uomo dallo strapotere economico-finanziario che lo soffoca.

E’ troppo presto per poter dire se una ipotesi siffatta abbia consistenza. La strage di Portella della Ginestra ed altri fatti delittuosi verificatisi in Sicilia in tempi recenti provano che la mafia – forza reazionaria per vocazione e per tradizione – non esita ad intervenire in favore del potere quando chi lo detiene ha timore di perderlo, o comunque tende a rafforzarlo ulteriormente.

Non si può concludere senza accennare al fenomeno mafioso considerato sotto l’aspetto giuridico.

Le voci, piuttosto solitarie pur se autorevoli, che, imprigionate entro schemi di puro diritto, negavano che la mafia potesse essere riconducibile entro lo schema dell’art. 416 Codice Penale e le attribuivano qualificazioni di ordinamento a sé stante, di istituzione succedanea o surrogata allo stato, sono ormai superate. Tuttavia, come altre volte è stato sostenuto da chi scrive, data la complessità e le implicazioni di ordine socioeconomico e politico connaturate, ieri come oggi, al fenomeno, è grave errore farlo rientrare nella fattispecie dell’art.416 CP. La realtà odierna impone la urgente ed indefferibile necessità di creare la nuova figura del reato di associazione mafiosa con pene diverse e più gravi, sia con riferimento a quelle principali, ma soprattutto a quelle accessorie, rispetto alle sanzioni comminate per gli appartenenti alla associazione prevista dall’art. 416 CP. Sul punto esiste l’articolato disegno di legge presentato dal compianto on. La Torre e da altri deputati.

Se pure, sul piano operativo, non sarà compito facile, attesa la segretezza particolare che regola le organizzazioni mafiose, raccogliere elementi probatori – difficoltà, però, non equivale ad impossibilità – nessuno che abbia conoscenza del fenomeno, può sostenere che la norma dell’art. 416 CP sia, ancora oggi, utilizzabile per combattere efficacemente il fenomeno stesso. La nuova figura del reato di associazione mafiosa, con la adozione di nuovi e più moderni metodi di indagine (accertamenti bancari, sequestri di beni illecitamente conseguiti, etc.) demandati ad organi di polizia giudiziaria qualificati potrebbe, unitamente alle nuove misure di prevenzione delle quali

da tempo si parla, costituire valido mezzo nella lotta contro la mafia. Sempre che ci sia volontà di farla, questa giusta e civile battaglia.



Note

*Testo della relazione svolta all’Incontro della Commissione ‘Riforma’ con i magistrati impegnati in processi contro i mafiosi, Castelgandolfo 4-6 giugno 1982, pubblicata in Segno, n. 3, 1982, col titolo “L’arcipelago della mafia”.



(1) Con la sentenza-ordinanza citata sono stati rinviati a giudizio i calabresi Giuseppe Cassone, Francesco Mazzaferro, Rocco Lombardo, Vincenzo Femia, Salvatore Novembre.



(2) Secondo fonti attendibili nelle province di Palermo e di Trapani ci sarebbero non meno di quattro o cinque laboratori, mentre qualcuno sarebbe in Calabria.



(3) Ciò si è potuto verificare proprio in conseguenza dei legami esistenti tra siffatte imprese e taluni settori di pubblici poteri.

AA.VV. Sulla pelle dello stato, Palermo, La Zisa, 1991.





Box1

Rocco Chinnici, nato a Misilmeri il 19 gennaio 1925, fu nominato consigliere istruttore aggiunto presso il Tribunale di Palermo nel gennaio 1975 e consigliere istruttore del medesimo Ufficio nel gennaio 1980. Diede un apporto decisivo nell’organizzare tale Ufficio in modo adeguato e razionale, nell'intento di intervenire ed incidere in modo efficace e duraturo sul gravissimo fenomeno mafioso; all'uopo, si occupava di indagini di assoluta rilevanza e delicatezza, avvalendosi di un pool di colleghi del calibro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il 29 luglio 1983, verso le ore 8,10 del mattino, in Via Giuseppe Pipitone Federico, a Palermo, all'altezza del civico 59, ove il Chinnici abitava, esplose violentemente una Fiat 126 imbottita di esplosivo. Nell'attentato morirono, oltre allo stesso Chinnici – che in quel momento si apprestava a salire in macchina per recarsi in Tribunale –, il maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi e l'appuntato Salvatore Bartolotta, addetti al servizio di scorta del magistrato, nonché il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi; nell’esplosione rimasero ferite 19 persone, fra cui quattro carabinieri, anch’essi addetti alla tutela del giudice.





Box2



La mafia è oggi un grosso potere economico. Essa, una volta scoperto il filone d’oro dell’eroina, una volta accumulate ricchezze enormi che ha investito anche all’estero, ha assunto inevitabilmente un peso in seno alle istituzioni. Ma ha sempre avuto rapporti con il potere; per obiettività storica bisogna dire che essa aderisce a questo o a quel partito, in quanto detentore di potere. La mafia non è mai stata con chi è all’opposizione; i partiti del potere, in misura più o meno rilevante, sono, purtroppo, inquinati dalla mafia. Quelli che tradizionalmente hanno combattuto la mafia sono i partiti progressisti, i quali non possono ammettere l’esistenza del potere mafioso, tradizionalmente legato al comune e alla regione. Ormai si va rafforzando il convincimento che la mafia deve essere estromessa dalla istituzione, nella quale anche se non è presente direttamente, riesce a penetrare indirettamente. Rocco Chinnici













Un uomo che andava contro corrente

di Paolo Borsellino

Le fotografie presenti nel servizio sono state pubblicate per gentile concessione di: Letizia Battaglia, Franco Zecchin, Shobha.

L’umiltà, la saggezza, la serietà e l’amore di Paolo Borsellino verso il suo prossimo e i suoi fraterni colleghi Chinnici e Falcone si evidenziano chiaramente anche in questa prefazione.

Ho riletto con intensa emozione questi brevi scritti di Rocco Chinnici, che mi hanno fatto ricordare altri suoi interventi pubblici e tante altre conversazioni quotidiane che avevo con lui, di cui purtroppo è rimasta traccia solo nella mia memoria ed in quella di coloro che ebbero la fortuna di ascoltarlo.

Rocco fu assassinato nel luglio del 1983, agli inizi di questo decennio, quando ancora erano grandemente lacunose le concrete conoscenze sul fenomeno mafioso, che non era stato ancora visitato dall’interno, come poi fu possibile nella stagione dei “pentiti”.

Eppure la sua capacità di analisi e le sue intuizioni gli avevano permesso già nel 1981 (è questo l’anno di ben tre dei quattro scritti pubblicati) di formarsi una visione del fenomeno mafioso che non si discosta affatto da quella che oggi ne abbiamo, col supporto però di tanto rilevanti acquisizioni probatorie, passate al vaglio delle verifiche dibattimentali.

Le dimensioni gigantesche della organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d’Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga ed i suoi effetti devastanti, l’inadeguatezza della legislazione: c’è già tutto in questi scritti di Chinnici, risalenti ad un periodo in cui scarse erano le generali conoscenze ed ancora profonda e radicata la disattenzione o, più pericolosa, la tentazione, sempre ricorrente, alla convivenza.

Eppure, né generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione alla convivenza col fenomeno mafioso, spesso confinante con la collusione, scoraggiarono mai quest’uomo, che aveva, come una volta mi disse, la “religione del lavoro”.

Egli era divenuto, alla fine degli anni ‘70, dirigente dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. E proprio in quegli anni divampò la così detta “guerra di mafia” e si verificarono, non i primi, ma sicuramente i più clamorosi delitti eccellenti.

A capo della struttura giudiziaria più esposta d’Italia, si prefisse di potenziarla opportunamente e renderla efficace strumento di quelle indagini nei confronti della criminalità organizzata, troppo a lungo trascurate in precedenza.

Uno per uno ci scelse: noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costituito il così detto “pool antimafia”. Ci prospettò lucidamente le difficoltà ed i pericoli del lavoro che intendeva affidarci, ci assistette e ci spronò a superare diffidenze e condizionamenti: ché allora, con carica non meno insidiosa dell’arrogante tracotanza di oggi, così si manifestavano gli ostacoli frapposti dalla “palude” al nostro lavoro.

Credeva fermamente nella necessità del lavoro di équipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i “suoi” giudici. Per suo merito, nell’estate del 1983, si erano realizzate, pur nell’assenza di una idonea regolamentazione legislativa, ancora oggi mancante, tutte le condizioni per la creazione del pool antimafia, che, infatti, subito dopo fu possibile realizzare sotto la direzione di Antonino Caponnetto, il quale continuò meritoriamente l’opera di Rocco Chinnici e ne realizzò il disegno, pur avendo una personalità completamente diversa dall’altro, ma animato da eguale tensione morale e spirito di sacrificio.

Un sereno spirito di sacrificio animò sempre la vita di Rocco Chinnici, il quale non cessò mai di essere consapevole, molto più di quanto sia ragionevole credere, dell’altissimo rischio personale connesso alla sua attività. Egli “sapeva” che la stessa sua vita era un pericolo per le organizzazioni mafiose ed i loro fiancheggiatori e quindi ben presagiva la sua fine. Sapeva che con la sua uccisione si sarebbe tentato di spazzar via le conoscenze e la sua volontà di riscatto e lucidamente non si stancò mai di trasmettere le une ed infondere l’altra sia ai suoi più stretti collaboratori sia a chiunque con cui potesse venire in contatto. E ciò faceva quasi affannosamente, pressato dall’urgenza dei tempi, poiché sentiva montare attorno a lui la minaccia che già aveva prodotto i suoi tragici effetti con Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, le cui uccisioni lo avevano profondamente addolorato ma non impaurito né demotivato.

Chi gli visse accanto in quell’ultimo tragico anno della sua esistenza sa con quale impegno ed abnegazione, giorno e notte, con orari impossibili, continuò a lavorare nell’istruzione di quel procedimento, allora detto “dei 162”, che costituì l’embrione iniziale del primo maxiprocesso alle cosche mafiose, oggi giunto alla sua seconda verifica dibattimentale.

Gli era così chiara l’unitarietà e l’interdipendenza fra tutte le famiglie mafiose e palese la connessione fra tutti i loro principali delitti (concetti che oggi fanno parte del patrimonio comune di chiunque si occupi di criminalità mafiosa, sebbene talune poco convincenti decisioni della Cassazione li abbiano posti recentemente in dubbio) che a lui risalgono la paternità o almeno l’ispirazione dei primi provvedimenti di riunione delle istruttorie sui grandi delitti di mafia. Era convinto che solo con un grande sforzo, inteso ad affrontare unitariamente l’esame del fenomeno, cercando di cogliere tutte le interconnessioni fra i grandi delitti, fosse possibile fare su di essi chiarezza, individuandone le cause e gli autori. Sforzo giudiziario reso necessario dalla inerzia investigativa del precedente decennio, la quale aveva creato un vuoto che lui ed i suoi giudici erano chiamati a colmare.

Questa fu poi la ragione ispiratrice del maxiprocesso: non astratto modello di indagine giudiziaria, non scelta fra diverse metodologie istruttorie, ma via obbligata da perseguire in quel determinato momento storico, nel quale mancava del tutto una risposta giudiziaria che costituisse punto di riferimento certo per le successive attività investigative.

Ma gli erano chiari altresì i limiti invalicabili della risposta giudiziaria alla mafia. Profondamente giudice, ben sapeva che suo compito istituzionale era esclusivamente quello di accertare l’esistenza di reati ed individuarne i colpevoli. Attività non idonea a debellare le radici socio-economiche e culturali della mafia, così profondamente inserita nella realtà del paese da trovare la forza di riprendersi, con accentuata ferocia, dopo ogni “successo” giudiziario nei suoi confronti.

Per questo non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sdradicamento.

Sono questi concetti che oggi sentiamo continuamente ripetere nei convegni e nelle tavole rotonde e leggiamo frequentemente sulle colonne dei giornali. Ma all’inizio del decennio era già difficile fare accettare il concetto della esistenza stessa della mafia, spesso definita, ed anche in sede autorevole, “volgare delinquenza” ed è merito di pochi, e di Chinnici in prima linea, l’averne intuito la profonda essenza e pericolosità.

Analogamente dicasi per la diffusione delle droghe e della tossicodipendenza.

Forse in questa legislatura si giungerà finalmente alla modifica delle ormai inadeguate norme della legge del 1975 (aspramente criticata da Chinnici nella conferenza al Rotary Club del 29 luglio 1981), che se non ha favorito ha sicuramente consentito l’espandersi a dismisura del consumo delle sostanze stupefacenti.

Quasi dieci anni fa, in periodo di sostanziale sottovalutazione, se non di indifferenza al fenomeno, Chinnici, ben consapevole di andare contro corrente, intuì la pericolosità di una legge permissiva ed il decisivo valore della prevenzione, assumendosene in prima persona il carico. Innumerevoli furono i suoi interventi in tutte le scuole cittadine, i suoi incontri con professori e studenti, i più esposti alla diffusione del flagello, presiedendo dibattiti, partecipando a tavole rotonde, rispondendo a tutte le domande che gli venivano rivolte, sempre, come sua abitudine, citando dati a casi concreti appresi durante la sua lunghissima esperienza giudiziaria nella materia.

“Dove trova il tempo?” ci domandavamo talvolta i suoi collaboratori, che ben sapevamo come questa attività non scalfiva affatto le sue capacità di smaltire velocemente e proficuamente enormi quantità di lavoro giudiziario.

Lo trovava, lo inventava, con la sua radicata e vorrei dire religiosa convinzione che anche quello era suo indefettibile compito di cittadino; che una lunga e defatigante istruttoria su un omicidio di mafia o su un traffico internazionale di stupefacenti non avrebbe avuto senso compiuto se insieme egli non avesse profuso tra i giovani, che con la sua attività giudiziaria cercava di difendere, anche quei frutti della sua esperienza e della sua cultura che, se ben recepiti, li avrebbero messi in grado di difendersi da se stessi.

E questa lezione ai giovani è quella che ha dato più frutti. Il suo risultato è sicuramente il più stabile punto di non-ritorno dell’azione antimafia di Rocco Chinnici, proseguita poi tra mille difficoltà da Antonino Caponnetto e da molti altri, primo tra tutti Giovanni Falcone, non a caso anche lui vittima designata, e fortunatamente scampata, di analogo attentato.

Al di là dei sempre incerti esiti giudiziari delle grandi inchieste di mafia, la loro stessa celebrazione e la diffusione dei loro principi ispiratori hanno prodotto nei giovani una nuova coscienza, impensabile nelle precedenti generazioni, che rifiuta la mafia e la tentazione di convivere con essa.

Già nel luglio 1983, in una lettera al Presidente della Repubblica, pubblicata nell’appendice di questo libro, giovani studenti palermitani manifestavano fermamente il loro desiderio di liberazione ed invocavano l’intervento globale dello Stato.

Appena due anni dopo altri giovani studenti, tutti studenti palermitani, colpiti nelle loro carni dalla terribile tragedia di via Libertà, della quale chi scrive fu involontario protagonista, dimostravano, e lo dimostrano ancora, il livello della loro profonda e sofferta maturazione, non cedendo a comprensibile rabbiosa reazione ma invocando l’instaurarsi delle condizioni di una vita onesta, ordinata, civile.

Questi giovani sono gli eredi spirituali di Rocco Chinnici, che tanto amò i suoi figli ed i loro coetanei. Sono i possessori di un lascito duraturo. Ad essi si riferisce il cardinale Pappalardo nella sua omelia funebre del 30 luglio 1983: “Conosce il Signore la via dei buoni, la loro eredità durerà nei secoli”.


Palermo, 12 dicembre 1989
Paolo Borsellino

http://www.antimafiaduemila.com/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=1095&mode=thread&order=0&thold=0

LUVІ
29-07-2006, 19:44
Grazie.

*

IpseDixit
30-07-2006, 10:18
...

edited823
30-07-2006, 10:43
magari adesso arriva il solito a dire che è un comunista.

Lorekon
30-07-2006, 11:25
magari adesso arriva il solito a dire che è un comunista.
KOMUNISTA!!!!!!!!!!!! :p