FabioGreggio
06-07-2006, 11:13
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Tre prigionieri inglesi fucilati sul Grappa in un feroce rastrellamento antipartigiano
ANTICIPAZIONE *** Carte inedite in un saggio sul nuovo numero di «MicroMega»
Anticipiamo un estratto da un saggio su Albertazzi e la Rsi contenuto nel numero in uscita della rivista «MicroMega». «Il torbido mi attrae, perché sono solare e non ho alcun pregiudizio moralistico né etico-cattolico.
Sono introvabile e scompaio sempre, chiunque può fare di me quello che vuole, ma se stringe il pugno sono svanito: sono aria e inconsistenza»: così Giorgio Albertazzi nella sua autobiografia del 1988.
Ma di recente, lavorando sulle carte dell' Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli, una studiosa vicentina - Sonia Residori, che sta ultimando un' ampia ricerca sulla violenza fascista nel Veneto centrale - lo ha pur trovato, il «sottotenente Albertazzi Giorgio».
E ha potuto riscontrare quanto poco i pregiudizi della morale cattolica abbiano frenato lui e gli altri legionari di Salò che contribuirono ai fasti dell' «operazione Piave» (il grande rastrellamento antipartigiano sul Monte Grappa del settembre 1944, ndr). Il documento d' archivio è contenuto nella busta Tagliamento, che contiene copia degli atti del processo contro una quindicina di legionari celebrato dopo la Liberazione dal Tribunale militare territoriale di Milano, e giunto a sentenza nel 1952.
Datato da Staro (presso Recoaro) il 28 settembre 1944, consiste nel diario delle operazioni compiute dalla terza compagnia del 63° battaglione M durante gli otto giorni compresi fra il 20 e il 27 del mese. Più esattamente, si tratta di una Relazione sull' azione «Piave» firmata dal responsabile della compagnia, il tenente Giorgio Pucci, e da lui inoltrata al comando di battaglione.
Appena due pagine dattiloscritte, che permettono tuttavia di ricostruire con precisione - giorno per giorno, e quasi ora per ora - i movimenti degli ottantanove legionari agli ordini di tre ufficiali: lo stesso tenente Pucci e i sottotenenti Prezioso e Albertazzi, rispettivamente a capo del primo e del secondo plotone fucilieri. Da Solagna, gli uomini della terza compagnia avevano risalito i contrafforti del Grappa attraverso la valle di santa Felicita, attestandosi al limite del bosco di Monte Oro.
Nel secondo giorno di operazioni, avevano fatto prigionieri «n. 3 inglesi e n. 3 italiani». Il primo scontro a fuoco era avvenuto il 22 settembre: intercettata una «pattuglia di banditi», i legionari avevano prontamente reagito, «uccide(ndo) un bandito e costringe(ndo) la pattuglia nemica a scendere precipitosamente in basso». Ore dopo, un secondo scontro a fuoco si era facilmente concluso a loro vantaggio («poche raffiche bastarono per uccidere n. 4 banditi»).
Alla fine dell' intensa giornata, la compagnia si era disposta a sbarramento della valle delle Foglie: ma non prima di avere fatto altri prigionieri, «n. 5 individui nascosti nel bosco». La marcia di ritorno verso Solagna era cominciata il 24, «su tre direttrici per il rastrellamento di uomini e degli armenti».
Cinque i «renitenti alla leva» catturati quel giorno, in cui fra l' altro si era provveduto a fucilare i tre prigionieri inglesi; sette gli ostaggi dell' indomani («n. 6 renitenti alla leva ed un disertore dell' esercito repubblicano»).
La terza compagnia era rientrata a Solagna nella mattinata del 26, mentre già il tenente Pucci si preparava ad accompagnare la sua Relazione sull' «azione Piave» con un fiero «riepilogo dei banditi messi fuori combattimento».
Il contenuto del diario del 63° battaglione M non va preso per oro colato. Forse più di ogni altro reparto della Guardia nazionale repubblicana, la legione Tagliamento risentì infatti il peso della retorica che la Bildung fascista trasmise alla generazione dei balilla.
Lo ha detto bene Carlo Mazzantini nella sua propria testimonianza autobiografica, il libro di memorie - tanto più sincere che quelle di Albertazzi - intitolato A cercar la bella morte: i legionari di Salò vivevano di fanfare, e di miti falsi vissuti come veri. Sul versante non già della memorialistica, ma della storiografia, gli studiosi della Resistenza nel Novarese e nel Vercellese hanno sottolineato essi pure il carico di luoghi comuni che zavorravano il discorso del 63° battaglione.
Un linguaggio standardizzato e iperbolico, dove l' attività dei plotoni veniva immancabilmente presentata come «intensa», e la reazione agli attacchi partigiani come «immediata e potente». Una sottovalutazione sistematica dei «banditi» partigiani, dei quali neppure si intendeva la tattica consistente nel sottrarsi allo scontro frontale, ogni volta definendone lo sganciamento come una «fuga precipitosa» Stando così le cose, il documento ritrovato in archivio da Sonia Residori va maneggiato con cautela.
Ma quando lo si sfrondi della sua retorica e dei suoi stereotipi, è una fonte che parla chiaro allo storico.
Dal 20 al 27 settembre 1944, un reparto fra i più sperimentati e agguerriti della Guardia nazionale repubblicana, il 63° battaglione M, collaborò con l' esercito tedesco a una gigantesca operazione di rastrellamento, che per le formazioni partigiane si risolse in una gravissima disfatta.
Il battaglione era composto di varie compagnie, una delle quali, la terza, aveva per ufficiale il sottotenente Giorgio Albertazzi.
Senza riuscire straordinario, il bottino militare conseguito dalla sola terza compagnia nel breve volgere di una settimana fu comunque degno di nota: oltre ai tre soldati inglesi passati per le armi, cinque i «banditi» italiani uccisi negli scontri a fuoco (tra cui il comandante della brigata Italia Libera Campocroce, Vico Todesco), venti quelli catturati (in gran parte deportati a Dachau, e mai più ritornati).
Diversamente da quanto avrebbe scritto nelle sue memorie, Albertazzi non li ha visti soltanto «scappare», i partigiani, le «poche volte» che li ha visti. Li ha visti in catene, dopo averli fatti prigionieri. E li ha visti cadaveri, dopo avere loro sparato.
«Andai a Salò da ribelle e ho visto solo scappare chi faceva la Resistenza»
«Forse non dovrei dirlo - non sta bene! - ma io i partigiani li ho sempre visti scappare, le poche volte che li ho visti».
È questo il passo dell' autobiografia di Giorgio Albertazzi Un perdente di successo (Rizzoli, 1988) che Sergio Luzzatto contesta sulla base di un documento d' archivio.
L' attore, che si riserva di replicare alle critiche dopo aver letto l' articolo che lo chiama in causa, già in passato è stato oggetto di polemiche per il suo passato di ufficiale della Rsi, specie in riferimento al caso di Ferruccio Manini, un disertore dell' esercito di Salò fucilato a Sestino, in provincia di Arezzo, il 28 luglio 1944.
Albertazzi, da ultimo nell' intervista uscita sul Corriere il 4 marzo scorso, ha sempre negato di aver comandato il plotone di esecuzione.
Però alcuni abitanti del paese lo smentiscono e anche il tribunale militare di Milano, nell' immediato dopoguerra, giunse alla conclusione che fosse stato lui a ordinare il fuoco, ma lo assolse ritenendo che avesse agito «in stato di necessità».
Quanto alle ragioni che lo portarono a Salò, l' artista non si richiama tanto all' assassinio di suo zio Alfio, fascista pestato a morte da avversari politici dopo la caduta di Mussolini, quanto a un moto di ribellione destato in lui dalla viltà di chi aveva appoggiato il regime e ora pensava solo a salvare la pelle:
«Scelsi - scrive nell' autobiografia - non coloro che si erano già arresi, che disprezzavo, bensì la causa perduta (alla fine del ' 43 gli alleati e l' Urss avevano già vinto) contro il conformismo piccolo borghese, che già si preparava ad acquattarsi nelle pieghe della Resistenza».
E nell' intervista al Corriere dichiarava di aver aderito alla Rsi spinto dallo stesso istinto anarchico che più tardi lo avrebbe «indirizzato a sinistra». Va aggiunto che nelle sue memorie Albertazzi non ripercorre passo per passo la sua esperienza di guerra, ma ne rievoca gli episodi da lui ritenuti significativi, spesso soffermandosi più sulle vicende sentimentali che sugli scontri armati.
Non manca di ricordare le atrocità del nemico: i cadaveri di soldati fascisti ritrovati con la M di Mussolini, che portavano sulle mostrine, infilata negli occhi; le fucilazioni indiscriminate dopo la resa, cui lui stesso sfuggì per un soffio. Molto scarse invece le notizie sul periodo tra il passaggio del suo reparto da Sestino alla Val Camonica (estate 1944) e i giorni a ridosso del 25 aprile. Manca ogni accenno, come nota Luzzatto, al rastrellamento sul Grappa.
da Corsera
Tre prigionieri inglesi fucilati sul Grappa in un feroce rastrellamento antipartigiano
ANTICIPAZIONE *** Carte inedite in un saggio sul nuovo numero di «MicroMega»
Anticipiamo un estratto da un saggio su Albertazzi e la Rsi contenuto nel numero in uscita della rivista «MicroMega». «Il torbido mi attrae, perché sono solare e non ho alcun pregiudizio moralistico né etico-cattolico.
Sono introvabile e scompaio sempre, chiunque può fare di me quello che vuole, ma se stringe il pugno sono svanito: sono aria e inconsistenza»: così Giorgio Albertazzi nella sua autobiografia del 1988.
Ma di recente, lavorando sulle carte dell' Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli, una studiosa vicentina - Sonia Residori, che sta ultimando un' ampia ricerca sulla violenza fascista nel Veneto centrale - lo ha pur trovato, il «sottotenente Albertazzi Giorgio».
E ha potuto riscontrare quanto poco i pregiudizi della morale cattolica abbiano frenato lui e gli altri legionari di Salò che contribuirono ai fasti dell' «operazione Piave» (il grande rastrellamento antipartigiano sul Monte Grappa del settembre 1944, ndr). Il documento d' archivio è contenuto nella busta Tagliamento, che contiene copia degli atti del processo contro una quindicina di legionari celebrato dopo la Liberazione dal Tribunale militare territoriale di Milano, e giunto a sentenza nel 1952.
Datato da Staro (presso Recoaro) il 28 settembre 1944, consiste nel diario delle operazioni compiute dalla terza compagnia del 63° battaglione M durante gli otto giorni compresi fra il 20 e il 27 del mese. Più esattamente, si tratta di una Relazione sull' azione «Piave» firmata dal responsabile della compagnia, il tenente Giorgio Pucci, e da lui inoltrata al comando di battaglione.
Appena due pagine dattiloscritte, che permettono tuttavia di ricostruire con precisione - giorno per giorno, e quasi ora per ora - i movimenti degli ottantanove legionari agli ordini di tre ufficiali: lo stesso tenente Pucci e i sottotenenti Prezioso e Albertazzi, rispettivamente a capo del primo e del secondo plotone fucilieri. Da Solagna, gli uomini della terza compagnia avevano risalito i contrafforti del Grappa attraverso la valle di santa Felicita, attestandosi al limite del bosco di Monte Oro.
Nel secondo giorno di operazioni, avevano fatto prigionieri «n. 3 inglesi e n. 3 italiani». Il primo scontro a fuoco era avvenuto il 22 settembre: intercettata una «pattuglia di banditi», i legionari avevano prontamente reagito, «uccide(ndo) un bandito e costringe(ndo) la pattuglia nemica a scendere precipitosamente in basso». Ore dopo, un secondo scontro a fuoco si era facilmente concluso a loro vantaggio («poche raffiche bastarono per uccidere n. 4 banditi»).
Alla fine dell' intensa giornata, la compagnia si era disposta a sbarramento della valle delle Foglie: ma non prima di avere fatto altri prigionieri, «n. 5 individui nascosti nel bosco». La marcia di ritorno verso Solagna era cominciata il 24, «su tre direttrici per il rastrellamento di uomini e degli armenti».
Cinque i «renitenti alla leva» catturati quel giorno, in cui fra l' altro si era provveduto a fucilare i tre prigionieri inglesi; sette gli ostaggi dell' indomani («n. 6 renitenti alla leva ed un disertore dell' esercito repubblicano»).
La terza compagnia era rientrata a Solagna nella mattinata del 26, mentre già il tenente Pucci si preparava ad accompagnare la sua Relazione sull' «azione Piave» con un fiero «riepilogo dei banditi messi fuori combattimento».
Il contenuto del diario del 63° battaglione M non va preso per oro colato. Forse più di ogni altro reparto della Guardia nazionale repubblicana, la legione Tagliamento risentì infatti il peso della retorica che la Bildung fascista trasmise alla generazione dei balilla.
Lo ha detto bene Carlo Mazzantini nella sua propria testimonianza autobiografica, il libro di memorie - tanto più sincere che quelle di Albertazzi - intitolato A cercar la bella morte: i legionari di Salò vivevano di fanfare, e di miti falsi vissuti come veri. Sul versante non già della memorialistica, ma della storiografia, gli studiosi della Resistenza nel Novarese e nel Vercellese hanno sottolineato essi pure il carico di luoghi comuni che zavorravano il discorso del 63° battaglione.
Un linguaggio standardizzato e iperbolico, dove l' attività dei plotoni veniva immancabilmente presentata come «intensa», e la reazione agli attacchi partigiani come «immediata e potente». Una sottovalutazione sistematica dei «banditi» partigiani, dei quali neppure si intendeva la tattica consistente nel sottrarsi allo scontro frontale, ogni volta definendone lo sganciamento come una «fuga precipitosa» Stando così le cose, il documento ritrovato in archivio da Sonia Residori va maneggiato con cautela.
Ma quando lo si sfrondi della sua retorica e dei suoi stereotipi, è una fonte che parla chiaro allo storico.
Dal 20 al 27 settembre 1944, un reparto fra i più sperimentati e agguerriti della Guardia nazionale repubblicana, il 63° battaglione M, collaborò con l' esercito tedesco a una gigantesca operazione di rastrellamento, che per le formazioni partigiane si risolse in una gravissima disfatta.
Il battaglione era composto di varie compagnie, una delle quali, la terza, aveva per ufficiale il sottotenente Giorgio Albertazzi.
Senza riuscire straordinario, il bottino militare conseguito dalla sola terza compagnia nel breve volgere di una settimana fu comunque degno di nota: oltre ai tre soldati inglesi passati per le armi, cinque i «banditi» italiani uccisi negli scontri a fuoco (tra cui il comandante della brigata Italia Libera Campocroce, Vico Todesco), venti quelli catturati (in gran parte deportati a Dachau, e mai più ritornati).
Diversamente da quanto avrebbe scritto nelle sue memorie, Albertazzi non li ha visti soltanto «scappare», i partigiani, le «poche volte» che li ha visti. Li ha visti in catene, dopo averli fatti prigionieri. E li ha visti cadaveri, dopo avere loro sparato.
«Andai a Salò da ribelle e ho visto solo scappare chi faceva la Resistenza»
«Forse non dovrei dirlo - non sta bene! - ma io i partigiani li ho sempre visti scappare, le poche volte che li ho visti».
È questo il passo dell' autobiografia di Giorgio Albertazzi Un perdente di successo (Rizzoli, 1988) che Sergio Luzzatto contesta sulla base di un documento d' archivio.
L' attore, che si riserva di replicare alle critiche dopo aver letto l' articolo che lo chiama in causa, già in passato è stato oggetto di polemiche per il suo passato di ufficiale della Rsi, specie in riferimento al caso di Ferruccio Manini, un disertore dell' esercito di Salò fucilato a Sestino, in provincia di Arezzo, il 28 luglio 1944.
Albertazzi, da ultimo nell' intervista uscita sul Corriere il 4 marzo scorso, ha sempre negato di aver comandato il plotone di esecuzione.
Però alcuni abitanti del paese lo smentiscono e anche il tribunale militare di Milano, nell' immediato dopoguerra, giunse alla conclusione che fosse stato lui a ordinare il fuoco, ma lo assolse ritenendo che avesse agito «in stato di necessità».
Quanto alle ragioni che lo portarono a Salò, l' artista non si richiama tanto all' assassinio di suo zio Alfio, fascista pestato a morte da avversari politici dopo la caduta di Mussolini, quanto a un moto di ribellione destato in lui dalla viltà di chi aveva appoggiato il regime e ora pensava solo a salvare la pelle:
«Scelsi - scrive nell' autobiografia - non coloro che si erano già arresi, che disprezzavo, bensì la causa perduta (alla fine del ' 43 gli alleati e l' Urss avevano già vinto) contro il conformismo piccolo borghese, che già si preparava ad acquattarsi nelle pieghe della Resistenza».
E nell' intervista al Corriere dichiarava di aver aderito alla Rsi spinto dallo stesso istinto anarchico che più tardi lo avrebbe «indirizzato a sinistra». Va aggiunto che nelle sue memorie Albertazzi non ripercorre passo per passo la sua esperienza di guerra, ma ne rievoca gli episodi da lui ritenuti significativi, spesso soffermandosi più sulle vicende sentimentali che sugli scontri armati.
Non manca di ricordare le atrocità del nemico: i cadaveri di soldati fascisti ritrovati con la M di Mussolini, che portavano sulle mostrine, infilata negli occhi; le fucilazioni indiscriminate dopo la resa, cui lui stesso sfuggì per un soffio. Molto scarse invece le notizie sul periodo tra il passaggio del suo reparto da Sestino alla Val Camonica (estate 1944) e i giorni a ridosso del 25 aprile. Manca ogni accenno, come nota Luzzatto, al rastrellamento sul Grappa.
da Corsera